Il libro di cui sto per parlarvi è una scossa di terremoto che apre delle crepe sul mondo in cui, troppo spesso, ci fanno credere di vivere. L’ho appena terminato e, di Vicoli della Memoria (Becos da Memória, il titolo originale in portoghese del libro lanciato nel 2006), questa è la prima cosa che mi sento di dire.
È una delle opere più note di Conceição Evaristo, scrittrice e linguista brasiliana nata a Belo Horizonte e cresciuta nella favela di Pindura Saia, poi demolita per far spazio alla crescita urbana della capitale mineira.
La lettura di Vicoli della Memoria, pubblicato in Italia da Tamu Edizioni, scorre veloce dalla prima all’ultima pagina. L’autrice racconta le vicende quotidiane di alcuni abitanti di una favela che sta per essere sgomberata. È una di quelle comunità che si scelse di radere al suolo negli anni della dittatura che si instaurò a partire dal colpo di stato militare del 1964 e che fu appoggiato dai settori più conservatori della società brasiliana. In quel periodo oltre alla sospensione di alcuni diritti fondamentali e alla limitazione della libertà, dal punto di vista urbanistico si decise di eradicare molte delle favelas che sorgevano più abbondanti di oggi in quartieri nobili delle città.
I loro abitanti, erano in gran parte neri e poveri, già ai margini di una società che non ci mise molto a passare dallo schiavismo al classismo. Quasi sempre, come accade ancora oggi, si trattava di lavoratori impiegati nelle case dei ceti più benestanti. Esseri umani con famiglie da mantenere, bambini cui dar da mangiare, anziani e malati da assistere. Persone con sogni o che i sogni li hanno già perduti di fronte alle difficoltà insormontabili di una vita troppo ostinata a volerli bastonare.
Con un forte accento autobiografico, la quotidianità della favela descritta in Vicoli della Memoria è spezzata per sempre dal rombo dei trattori, come canta Adoniran Barbosa nel samba Despejo na Favela. Il frastuono polveroso di un mondo che divora tutto, spezzando i legami, rovesciando gli affetti, deportando persone verso luoghi lontani da scuole e posti di lavoro, si abbatte sulla favela. È una storia che, ad altre latitudini e con attori diversi, continua a ripetersi.

A mio modo di vedere il mondo, è toccante pensare che una favela, un quartiere, un villaggio o una città prima ci siano e poi, di punto in bianco, cessino di esistere. Lo è ancor di più quando anche le memorie spariscono nel nulla e se ne perde la testimonianza senza che qualcuno o qualcosa le salvi.
Ci vuole un cuore allenato alle sofferenze per accettare di veder distruggere la propria casa e andarsene chissà dove con un pugno di sabbia nella mano destra e una sinistra da dividere tra le mani dei propri figli da crescere. Ci vuole un cuore ancor più grande per tutelare e difendere i più fragili alzando la voce di fronte ai soprusi o donando un abbraccio consolatore. Ci vogliono un cuore gigante, la caparbietà di chi sa di essere nel “giusto” e l’abilità delle grandi scrittrici, per raccogliere, ricordare e dare nuova vita alle storie di gente che nessuno altrimenti ascolterebbe. Ci vuole invece fegato in abbondanza per essere così inetti da demolire intere comunità senza offrire un’alternativa equa. Dal mio punto di vista, questo vale per chi conduce il trattore sulle catapecchie della favela, per chi ne firma l’ordine di sgombero e per chi ne decide la demolizione magari per far posto ad una nuova speculazione edilizia o semplicemente per non mostrare a chi ostenta ricchezza in eccesso la miseria senza limiti di chi di quella ricchezza è, suo malgrado, un “effetto collaterale”.
Con una grande umanità, qualità che tende sempre più a rarefarsi, Conceição Evaristo si sobbarca il carico di salvare la memoria nata tra i vicoli della favela e quella, più distante ma viva nei ricordi degli anziani, degli anni in cui la schiavitù era legalmente ammessa in Brasile (lo spazio condiviso, in quel caso, era la senzala degli schiavi). Scrivendo, l’autrice diviene megafono per la disperazione di chi piange, la rabbia di chi lotta e la poesia di chi sogna, mantenendo la promessa che la piccola grande Maria-Giovane, personaggio centrale del romanzo, fa a se stessa tra le pagine del libro.




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